Quando il liberale Mauricio Macri vinse a sorpresa le presidenziali del 2015 contro il peronista Daniel Scioli, la situazione economica dell’Argentina non era certo florida. L’inflazione toccava il 30% annuo, un terzo dei cittadini viveva in povertà ed era stato introdotto un rapporto falsato tra il peso e il dollaro USA. L’economia era ferma per via della mancanza di fiducia degli investitori stranieri nel Paese, governato dal 2003 dai peronisti Néstor e Cristina Kirchner.
L’ingegner Macri, figlio di un imprenditore edile italiano, riuscì a far digerire agli argentini una ricetta ormai antica, con qualche tocco di novità: liberalizzazioni, apertura ai mercati internazionali, incentivi agli investimenti produttivi, promesse di eliminazione della povertà e dell’inflazione, rinnovamento delle infrastrutture, lotta alla corruzione. A fine mandato il bilancio è però impietoso. Macri ha mancato quasi tutti gli obiettivi, portando l’Argentina in una situazione peggiore di quella ereditata. Nel 2019 l’inflazione è calcolata al 57% annuo, la terza più elevata del mondo. La povertà è cresciuta, oggi riguarda il 37% della popolazione. Intanto il peso argentino si è svalutato di oltre il 360%, e il deficit di bilancio ha raggiunto il 4% annuo. Per far fronte ai bisogni di cassa, già dal 2015 lo Stato ha ricominciato a emettere bond. Anche se nel giugno 2018 Macri annunciava trionfalmente il raggiungimento di un accordo con il Fondo Monetario Internazionale, che concedeva al Paese il prestito più importante della sua storia (oltre 50 miliardi di dollari erogabili in tre anni), il debito pubblico ha continuato a crescere: sommando anche il prestito del FMI, ammonta ora a 310 miliardi di dollari, pari al 98% del PIL, contro i 190 miliardi che Macri aveva ereditato (il 40% del PIL dell’epoca). Sul fronte della produzione e del reddito la situazione non è migliorata: negli ultimi 5 anni i settori trainanti dell’economia hanno subito un calo del 40%, mentre il potere d’acquisto dei salari è sceso del 20%.
Mauricio Macri si ricandida con questo fardello, e infatti si pronostica la sua sconfitta al primo turno contro Alberto Fernández. Questi, se eletto, porterà con sé come vicepresidente Cristina Fernández Kirchner, della quale fu capo di Gabinetto fino al 2008. La vedova Kirchner, che guidò in prima persona il Paese dal 2007 al 2015, sta provando a far passare sotto traccia la sua presenza nel futuro governo. Consapevole di dover scontare un’immagine pubblica non proprio felice, e di essere uno dei personaggi più divisivi della politica argentina, si è sapientemente schermata dietro un moderato, Alberto Fernández appunto, che è riuscito a coagulare il voto peronista e di protesta.
Sulle idee economiche i due candidati sono lontanissimi a parole, molto meno nei fatti. Macri ha una cultura liberale mentre Alberto Fernández è su posizioni stataliste e dirigiste, tuttavia quando Macri si è trovato a gestire l’impianto del welfare e il ruolo dello Stato modellati dai suoi predecessori non ha prodotto grandi scossoni. La sua unica misura realmente impopolare sono stati i tagli alle sovvenzioni dei servizi pubblici che, senza contributi statali, sono aumentati anche del 200%. Macri non ha promosso però riforme radicali di taglio neoliberale come quelle che, paradossalmente, promulgò negli anni ’90 il peronista Carlos Menem, all’epoca sostenuto anche dai Kichner.
L’esito della sfida tra Macri e Alberto Fernández sembra ormai scontato, ma in Argentina bisogna sempre lasciare un margine di dubbio. Se il candidato peronista non vincerà al primo turno, le cose si potrebbero complicare. In sottofondo c’è una situazione economica molto compromessa e la povertà che dilaga. È il movimento eterno del pendolo dell’economia argentina, che oscilla tra alti e bassi: un Paese che non è mai stato normale.