Un “No” che seppellirà l’Europa?

Continuano a susseguirsi i “no” su tutta la linea nei confronti dell’Unione Europea: no che non soltanto mettono in discussione un ipotetico rilancio dell’Europa, ma addirittura rischiano di far crollare quanto già costruito. Si parte da quello più clamoroso, la Brexit che porterà all’autoesclusione del Regno Unito, fino ad arrivare a quelli più “tecnici”, ma comunque significativi. In ordine cronologico, prima ha detto di no la Danimarca a una maggiore integrazione europea delle competenze degli Interni e della Giustizia; poi i Paesi Bassi, con un referendum, hanno respinto l’accordo di associazione UE-Ucraina; e ora la Vallonia, piccola regione del Belgio, ha fatto ritardare l’accordo commerciale CETA faticosamente negoziato per 7 anni tra l’Unione e il Canada, chiedendo e ottenendo un parere della Corte di Giustizia europea sul meccanismo previsto dal trattato.
Non sarebbero solo questi, i no, se in Ungheria il governo avesse raggiunto il quorum nel referendum sull’accettazione dei migranti. Se l’UE avesse trovato il coraggio di mettere il punto finale al TTIP (l’accordo tra USA e Europa attualmente congelato). E se perfino il premier di un Paese sempre tiepido come l’Italia manterrà la promessa di respingere al mittente le critiche della Commissione alla sua manovra economica.
Questa presa di distanza dalle istituzioni comunitarie e dalle loro regole si registra in uno dei peggiori momenti per l’Europa dall’ultimo dopoguerra a oggi, con la frontiera meridionale in fiamme e quella orientale tornata ai tempi della Guerra Fredda, masse di profughi che arrivano a ondate continue e la crisi economica che continua a farsi sentire sul piano della crescita e soprattutto dell’occupazione.
Sono diversi i fili rossi da seguire per comprendere questo “rompete le righe” ormai generalizzato, ma c’è soprattutto un grande indiziato. L’Unione Europea stessa, che dopo il fallimento del tentativo di darsi una Costituzione, e procedere così verso la federazione tra gli Stati membri, si è ripiegata solo su aspetti regolamentari e di stabilità di bilancio. In questo modo non poteva durare a lungo, e forse siamo già in fase di decomposizione.
L’utopia dell’euro, la moneta comune che avrebbe dovuto sancire la nascita di un superstato, si è infranta velocemente, tanto che oggi la valuta unica è considerata da molti uno strumento di oppressione. La Commissione, organo non elettivo, non ha mai voluto perdere competenze a favore del Parlamento europeo, scelto invece dai cittadini. La rigidità nell’applicazione a oltranza di dogmi economici e parametri stabiliti in una passata era geologica, come quelli di Maastricht, si è trasformata da garanzia di stabilità in una pietra al collo: servirebbe invece un approccio dinamico, in un ciclo economico totalmente diverso oggi rispetto al 1993.
Questa Europa in costruzione, anziché assecondare la crescente richiesta di partecipazione dei cittadini, si è chiusa in se stessa intavolando negoziati delicatissimi barricata in un silenzio sospetto, negando a lungo una vera trasparenza.  L’Europa che doveva diventare casa comune è diventata casa di pochi beneficiari dei finanziamenti e di funzionari che, quando sono costretti a passare dal consenso democratico, vengono sempre più spesso sonoramente bocciati. Per i complottisti di ogni risma questo è sicuramente cosa buona, ma per gli europei si tratta di un disastro annunciato.
L’impossibilità di governare e consolidare le istituzioni continentali in modo autorevole e rappresentativo accorcia la vita dell’utopia europea. Per questi motivi, prima ancora di entrare nel merito di questa o di quella misura, di alleanze transatlantiche o autarchia, l’Europa deve interrogarsi per decidere cosa fare. Nella classica scelta del “lascia o raddoppia”, la prima scelta sarebbe suicida in questo mondo in tempesta. Ma per il raddoppio resta sempre meno tempo a disposizione. Il Regno Unito sta scoprendo pian piano che da solo sarà più povero, quando lo capirà anche la Germania forse qualcosa succederà, ma certo non sarà la sola volontà tedesca a cambiare lo stato delle cose.