Di solito si fa caso all’indebitamento solo troppo tardi, quando un Paese, un’azienda o una famiglia non riesce più a farvi fronte. Stavolta, sul problema dell’indebitamento globale il Fondo Monetario Internazionale ha fatto suonare per tempo un campanello d’allarme, purtroppo pienamente giustificato. In questi anni, infatti, il debito ha continuato a crescere per via di una situazione globale rimasta stagnante, caratterizzata dal rallentamento della capacità di crescita delle economie più ricche e addirittura dal rallentamento dell’economia cinese, che per un ventennio è stata la locomotiva dei Paesi emergenti. Nel 2015 i debiti sommati da famiglie, imprese e Stati hanno raggiunto la cifra record di 152.000 miliardi di dollari: una cifra equivalente al 225% del prodotto interno lordo dell’intero pianeta, cioè più del doppio dell’economia mondiale. Un debito composto per due terzi dalla componente privata, che secondo il Fondo Monetario Internazionale costituisce un importante ostacolo alla ripresa mondiale e mette a rischio la stabilità finanziaria. Secondo le statistiche del Fondo, il debito totale è cresciuto esponenzialmente negli ultimi 15 anni, con una grande accelerata dopo l’inizio della crisi del 2008. Nel 2002 esso equivaleva al 200% del PIL mondiale: da allora è aumentato di ben 25 punti, e prevedibilmente continuerà a salire. La distribuzione del debito nel mondo è però molto diseguale, e una volta tanto non a detrimento dei più poveri. Per la maggior parte, infatti, si concentra nei Paesi con economie avanzate, ma sta crescendo velocemente anche in Cina, Stato le cui aziende concentrano il 40% di tutti i debiti corporate mondiali. L’analisi si conclude con una serie di consigli che l’FMI rivolge ai Paesi più esposti, premendo sempre e unicamente sul fronte delle “riforme”, intese come tagli alla spesa pubblica e sociale, agli investimenti produttivi e all’istruzione. Tutte ricette arcinote, che dagli anni ’80 il Fondo elargisce senza grande successo. Il problema è che il rigore di bilancio e il taglio della spesa pubblica riducono sì i deficit degli Stati, ma al tempo stesso deprimono il mercato e ostacolano la ripartenza della crescita. Si tratta di una gigantesca contraddizione sulla quale non si è mai trovata una mediazione tra le posizioni dei rigoristi di bilancio e quelle dei seguaci improvvisati di Keynes, spesso tirato in ballo a vanvera. Questa mancata riflessione, e il prevalere dell’ipotesi rigorista, hanno portato a fenomeni a noi ben noti, come quello dei debiti di Grecia e Italia: che, per quanti sacrifici si facciano, per quanto si massacrino previdenza e sanità, continuano imperterriti ad aumentare in rapporto al PIL. Com’è possibile che si sia accumulata una massa di debiti pari a oltre due volte l’economia mondiale? Semplicemente perché l’erogazione, la gestione e la riscossione del denaro, virtuale o reale, sono tra le poche voci che non conoscono crisi anche nell’economia asfittica dei nostri giorni. Denaro che crea denaro, denaro che si stampa senza fondamentali e che viene venduto a un prezzo superiore al suo reale valore. I crediti in circolazione sono così sproporzionati rispetto alla capacità di incassarli che sicuramente resteranno tali molto, ma molto a lungo. Nel frattempo, però, questa economia indebitata rimane ostaggio di ricette che ripropongono la solita musica: un rigore senza via d’uscita, a discapito dei più deboli.
Nov 08