Tornano i dittatori in Europa

Il rischio di svolte autoritarie motivate dalla necessità di far fronte alla pandemia comincia a diventare realtà. Con il voto di due terzi del Parlamento ungherese, Viktor Orbán ha sostanzialmente mutato la già debole democrazia ungherese in una dittatura che, come già successo più volte nella storia, inizia con un voto democratico. Il potere legislativo ungherese – che, come in tutte le democrazie, dovrebbe essere un potere altro e di garanzia rispetto a quelli esecutivo e giudiziario – ha votato per sospendere le proprie funzioni, trasferendo il potere in modo illimitato e senza scadenze al primo ministro.

Gli unici precedenti europei dell’ultimo secolo sono stati negli anni ’20 l’ascesa di Benito Mussolini e negli anni ’30 quella di Adolf Hitler, entrambi legittimati come dittatori dai rispettivi Parlamenti. Non è retorica parlare di dittatura nel caso ungherese: il primo ministro potrà governare a tempo illimitato decretando da solo, potrà sospendere elezioni, controllare gli organi di stampa e condannare fino a cinque anni di reclusione chi diffonde notizie “false” rispetto a quanto comunicato dal governo. L’accerchiamento degli autoritarismi ai confini dell’Unione Europea, di cui sono protagonisti i vari Putin, Erdoğan e al-Sisi, ha fatto breccia all’interno della Comunità. La risposta a quanto avvenuto in Ungheria sarà il vero banco di prova per gli altri 26 Paesi UE, che, in questo momento, non avevano bisogno di un nuovo fronte interno.

 

La svolta ungherese è stata preparata fin da quando è iniziata la pandemia. Le diverse batterie virtuali al servizio della galassia sovranista europea hanno da subito cominciato a sparare su due fronti. Il primo è quello del patriottismo, delle bandiere, del linguaggio militare, degli inni cantati dai balconi, colorando di nazionalismo patriottico quella che era ed è un’emergenza sanitaria. Il secondo è l’attacco sistematico all’Unione Europea, da sempre uno dei bersagli preferiti dai sovranisti. L’Unione, già provata dalla Brexit, in poco tempo ha fatto molto per la crisi, sospendendo il Patto di Stabilità e facendo pressione sulla Banca Centrale Europea che, nonostante le resistenze iniziali, ha lanciato un quantitative easing senza tetto. Il punto dolente è quello degli eurobond, cioè della socializzazione dei debiti nazionali dovuti alla crisi. Tema delicatissimo, perché la condivisione del debito è un tabù per molti Paesi europei. Ma al netto del giusto dibattito, e della mediazione che alla fine si troverà, le batterie dell’odio hanno inondato il web di fake news sull’Europa matrigna, dalla quale uscire senza indugio.

 

In questo clima, la mossa di Orbán scivola via più facilmente. Da una parte l’UE è seriamente impegnata nel contrastare la pandemia, dall’altra si è formato un consenso trasversale antipolitico, anti-istituzionale e pro-soluzioni drastiche che rischia di trasformare Orbán nel simbolo della mitologica “mano forte” che dovrebbe sistemare tutto. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che una svolta del genere, per certi versi inedita, avvenisse all’interno dell’Unione Europea, considerata ancora come un bastione della democrazia. Anche su questo bisogna riflettere, cioè su come la democrazia non si stia affatto diffondendo, ma anzi stia addirittura vacillando nel continente dov’è nata. La prima precauzione, per evitare la diffusione di questo virus potenzialmente più letale del Covid-19, è ammainare le bandiere, ignorare gli appelli che parlano di patria o di nazione e, soprattutto, cancellare il linguaggio militare. Il coronavirus è una pandemia, non una guerra. I cittadini non sono soldati ma si adeguano alla situazione, adottano le misure richieste solo se sono consapevoli. La patria non c’entra nulla, conta la solidarietà. E chi solleva qualche critica alla gestione della crisi, infine, non è un criminale, ma un cittadino, una persona che esercita il diritto di parola: senza il quale non si è più in democrazia.