L’elezione di Jair Bolsonaro a presidente della Repubblica brasiliana chiude il ciclo elettorale sudamericano che si era aperto nel 2015 con la vittoria di Mauricio Macri in Argentina, seguito da Sebastián Piñera in Cile, da Mario Abdo in Paraguay e da Iván Duque in Colombia. Questa svolta conservatrice, malgrado i toni in alcuni casi estremi, rimanda più agli anni Novanta del secolo scorso che alle dittature militari. Timidamente come in Argentina, o platealmente come in Brasile, si torna infatti a parlare di ricette “di mercato” per il superamento della crisi: cioè di nuovo si ipotizza che le difficoltà dell’economia possano essere risolte tagliando pensioni e servizi e consegnando ciò che resta del patrimonio dello Stato a gruppi privati, soprattutto multinazionali.
Si tratta di ricette già applicate dai Fujimori, dai Menem, dai Bucaram, dai Cardoso: all’epoca si tradussero in crescita della diseguaglianza sociale, svendita dei beni pubblici, peggioramento dei servizi, abbandono della sanità e della scuola pubbliche. E in un paio di casi si arrivò addirittura al default dello Stato. La reazione dei cittadini a quella stagione provocò l’onda lunga che in quasi tutto il subcontinente portò al potere governi progressisti. Uomini e donne di cultura politica diversa, ma che si riconoscevano in una lettura comune della situazione e in una strategia comune in politica estera, con priorità radicalmente diverse da quelle di prima. Negli anni Duemila non ci fu solo una maggiore redistribuzione del reddito attraverso il welfare ma fiorirono anche i diritti civili, e il Sudamerica, grazie soprattutto alla guida brasiliana, arrivò a giocare un ruolo importante nel mondo. Tuttavia i limiti della stagione progressista si vedevano fin da subito, con la sottovalutazione di due fenomeni destinati a travolgere i partiti che ne erano stati protagonisti.
Il primo è stato il dilagare della violenza urbana, da quando i cartelli del narcotraffico, che prima producevano cocaina per l’export, hanno cominciato a fabbricare nelle favelas la “droga dei poveri” con gli avanzi della raffinazione della cocaina. Droga, miseria, armi hanno generato un cocktail esplosivo che ha cambiato in peggio il volto di intere metropoli. Il secondo tema mancato è stato quello della legalità. I fenomeni di corruzione, antichi e sedimentati nei Paesi latinoamericani, non sono stati estirpati e nemmeno combattuti, ma anzi, buona parte dei progressisti ha utilizzato canali illeciti per finanziare la politica o arricchirsi personalmente. I primi segnali che quella piaga si stava estendendo a sinistra furono ignorati, con la tipica arroganza del potere. Questi sono stati i motivi che hanno portato soprattutto alla vittoria di Macri e di Bolsonaro, e che avrebbero prodotto un ricambio della classe dirigente in Venezuela e Nicaragua se in questi Paesi non fosse in atto una svolta autoritaria.
Le destre, che già avevano fallito in passato, a questo giro sono riuscite a far proprio il “marchio” del cambiamento, che è da sempre una garanzia per l’elezione dei presidenti. Tocca di nuovo a loro, in un ciclo di alternanza tra conservatori-neoliberisti e progressisti che, dal ritorno della democrazia, si va ripetendo. Un ricambio fra classi dirigenti che ogni volta illudono il popolo con promesse di cambiamento, ottenendone il consenso. Questa dialettica rischia però di erodere il bene più prezioso conquistato negli ultimi decenni: la democrazia. I toni, gli slogan e le promesse del neopresidente brasiliano fanno suonare il campanello di allarme. Se non si rivelerà semplicemente un demagogo che ha parlato a vanvera (cosa altamente probabile), Bolsonaro potrebbe diventare un vero rottamatore della democrazia, portando il Brasile verso la deriva che già conoscono Ungheria e Polonia, Paesi nei quali oggi si teorizza la democrazia illiberale. La differenza è che in Brasile la guerra che potrebbe cominciare non sarebbe solo contro gli immigrati, ma anche contro i poveri. Questo sì, come ai tempi dei militari.