Pandemie e ambiente

Molto si è scritto in questi mesi sulla relazione tra Covid-19 e cambiamenti climatici. Allo stato dell’arte non esistono prove di un collegamento ma qualcosa di certo si può dire: e cioè che lo stress crescente degli ecosistemi aggrediti dalle attività umane è alla base di quasi tutte le recenti pandemie. Questo perché molti animali che prima vivevano in ambienti isolati entrano sempre più spesso in contatto con popolazioni umane trasmettendo virus finora sconosciuti e pericolosi. Il salto di specie (in inglese spillover) è un processo naturale per cui un patogeno degli animali evolve e diventa in grado di infettare, riprodursi e trasmettersi all’interno della specie umana. È un rischio sempre più da prendere in considerazione, soprattutto nelle zone del pianeta dove sono presenti specie animali costrette a migrare dai loro habitat e delle quali spesso si consuma la carne. Non è un caso che diverse pandemie abbiano avuto origine nei mercati alimentari cinesi, dove di solito si vendono animali anche esotici vivi, oppure in Africa, dove la cacciagione continua a essere un’importante fonte di sostentamento. Tra gli animali sotto osservazione, i pipistrelli della frutta sono i principali indiziati e si pensa che siano stati la fonte dei coronavirus e di ebola. La moltiplicazione delle epidemie che rischiano di diventare pandemia è anche legata alla scarsità di risorse idriche, alla desertificazione e ad altri eventi estremi che spingono gli animali a spostarsi. Ma le colpe, in tutti questi casi, non possono in nessun modo ricadere sul regno animale in generale, ma su una sola e specifica specie: noi.

L’odierna pandemia di Covid-19 coincide con l’aggravarsi delle conseguenze dei cambiamenti climatici. Concentrata sul coronavirus, la stampa ha dedicato poco spazio ai segnali di allarme che provengono da tutti i continenti ma alcuni dati si stanno ormai confermando come strutturali e non più casuali. Gli incendi estivi in Australia e nella costa nordamericana del Pacifico, gli sciami di locuste in Africa, lo scioglimento del permafrost in Siberia e in Groenlandia, la veloce scomparsa dei ghiacci dell’Artico, i picchi di caldo che hanno colpito le latitudini temperate, l’innalzamento del livello del mare. Molti si interrogano sul futuro che ci aspetta, ma la comunità internazionale latita. Soltanto l’Europa comunitaria si pone come obiettivo la riduzione delle emissioni di CO2, mentre gli altri grandi inquinatori ignorano il tema, come l’India o la Cina, oppure negano perfino il pericolo come spesso fa Donald Trump. Poche le voci critiche che scendono in piazza per sensibilizzare i cittadini, e tra questi spicca Fridays for Future, il movimento di giovani nato attorno alla figura di Greta Thunberg. È vero che la pandemia ha abbassato i livelli di emissioni di CO2 per via del minore traffico mondiale di persone e merci, ma d’altra parte ha determinato un aumento smisurato dell’uso della plastica: sono miliardi al giorno i guanti, le mascherine, le posate, i bicchieri e i piatti di plastica che finiscono in discarica, bruciati o nei mari.

Davanti all’emergenza sanitaria non si risparmia nulla e, soprattutto, si sospende qualsiasi buona pratica. Davanti all’emergenza ambientale si pensa sempre di avere tempo a disposizione, anche se l’evidenza ci dice altro. Non si tratta di delineare scenari catastrofici: la cronaca ci conferma che siamo già all’interno di una sequenza che va fermata prima che sia, e non manca molto, irreversibile. Quando si parla di ambiente non vale la riduzione del danno: le conseguenze dell’impazzimento dell’orologio della natura non risparmiano nessuno. Ricchi e poveri sulla stessa barca come poche volte in passato. Certo, chi ha più risorse potrebbe resistere più a lungo, ma sarebbe comunque una resistenza effimera.

A lungo si è pensato che bastasse il cambiamento culturale perché le cose potessero migliorare: se ciascun cittadino avesse fatto la sua parte, la situazione sarebbe cambiata. Oggi si sa che questo non basta. Che, senza radicali mutamenti nelle politiche globali, comprare alimenti a chilometro zero o risparmiare acqua non incide più di tanto. È tempo di porre al centro delle politiche la questione ambientale, insieme a quella sociale, per provare a delineare un futuro migliore. Ambiente e società insieme perché il cambiamento climatico va combattuto anche con l’equità, permettendo che la massa di poveri che costituisce la maggioranza della popolazione mondiale, e che paga il prezzo più alto ai cambiamenti climatici, possa scegliere e non sia costretta a subire. Occorre una sfida anzitutto culturale e politica che spazzi via nazionalismi, razzismi, campanilismi.

Nessuno, né singolarmente né come Paese, si salva da solo: questo è il principio che dovrebbe ispirare un movimento per la nuova globalizzazione. Dopo quella mercantilista degli ultimi decenni, è urgente una globalizzazione dei diritti e delle regole ambientali. L’umanità deve trovare un linguaggio comune valido ovunque. Se si continua ad arroccarsi nel proprio giardino fa solo il gioco di chi, anche in questa fase, riesce a guadagnare sul disastro: quelli della crescita economica sempre e comunque, quelli dei combustibili fossili, quelli dei consumi usa e getta. Tutti questi grandi attori economici che continuano a dettare le regole fanno parte del passato anche se ancora non lo sanno. Non c’è spazio per loro nel futuro, la sfida è evitare che ci trascinino via con sé. È ora di fare un salto di qualità: le nostre buone pratiche di cittadini consapevoli devono ispirare e spingere la politica affinché siano varate quelle riforme necessarie e urgenti che possono invertire la rotta prima che sia superata la soglia di non ritorno.