La minaccia del lawfare

Il sito di giornalismo investigativo The Intercept ha appena diffuso una serie di file con i messaggi che, negli ultimi due anni, si sono scambiati via Telegram il giudice Sérgio Moro, oggi ministro della Giustizia del governo Bolsonaro in Brasile, e il pubblico ministero Deltan Dallagnol, che ha guidato il team investigativo dell’inchiesta “Lava Jato” sul conto dell’ex presidente Inácio da Silva Lula. Moro avrebbe aiutato Dallagnol ad allestire l’accusa, fornendo suggerimenti e informazioni riservate e anticipandogli alcune decisioni. Se l’autenticità di quei messaggi fosse confermata, saremmo di fronte alla prova del fatto che Sérgio Moro ha pesantemente violato le regole sul processo in vigore in Brasile: regole che impongono l’imparzialità del giudice rispetto ad accusa e difesa. Non solo. L’avere colpito Lula ha garantito a Moro quella popolarità che lo ha portato a occupare il dicastero della Giustizia, oltre che a tirare la volata al quasi sconosciuto Jair Bolsonaro.
La condanna di Lula a 12 anni di reclusione per corruzione passiva e riciclaggio è stata criticata, ancor prima di conoscere questi retroscena, da giuristi di tutto il mondo. Questo perché non sono mai state trovate prove che confermassero l’ipotesi investigativa. L’oggetto in questione era un appartamento a Guarujá che sarebbe stato regalato all’ex presidente da un’impresa da lui favorita per avere contratti con il colosso petrolifero Petrobras, controllato dallo Stato. Ma l’appartamento non era intestato a nessun parente né ad alcun membro dell’entourage di Lula, e tra l’altro non era mai stato nemmeno abitato. L’unico elemento che lo collegava Lula erano le dichiarazioni di un pentito, Léo Pinheiro, che in cambio ha avuto un forte sconto di pena dal giudice Moro. Sulla base di questa dubbia “prova”, senza altri riscontri, in nessun Paese democratico sarebbe stata possibile una condanna a carcere. Ma in Brasile, dove più volte in questi anni si è sfiorata l’illegalità anche nella gestione delle questioni istituzionali, tanto è bastato per la condanna in primo grado e poi per la conferma della sentenza da parte della Suprema Corte.
Nei giorni scorsi papa Francesco, rivolgendosi ai giudici che partecipavano in Vaticano a un vertice panamericano sui diritti sociali, ha denunciato il cosiddetto lawfare, ossia l’uso illegittimo del diritto con l’intento di danneggiare un avversario, arma spesso usata per minare i processi sociali e politici emergenti. Secondo il papa, queste pratiche derivano da una combinazione di attività giudiziarie improprie e operazioni multimediali parallele. Il suo discorso ha anticipato di poco l’uscita della notizia sulle irregolarità della giustizia brasiliana nel caso Lula. Ma il problema, ovviamente, non riguarda solo il Brasile.
Molto si è scritto in questi ultimi anni sui cambiamenti in corso nella politica da quando è divenuto possibile creare o distruggere il consenso attraverso l’uso spregiudicato (e spesso illegale) dei nuovi media, in particolare diffondendo notizie false. Poco, invece, si è ragionato sull’uso spericolato delle inchieste giudiziarie per abbattere o consacrare politici, anche con un tornaconto personale da parte dei giudici, come nel caso del brasiliano Moro. L’imparzialità e la terzietà della Giustizia sono un pilastro dei sistemi democratici, ma spesso restano tali solo sulla carta. Questo accade soprattutto in Paesi dove la democrazia è fragile e ostaggio dei poteri forti, che spesso annoverano tra le loro fila anche esponenti del potere giudiziario. E qui si potrebbe estendere la questione dell’imparzialità della giustizia anche rispetto al potere dei grandi gruppi economici.
Quel che è certo, nel caso brasiliano, è che se Lula non fosse stato vittima di atti illegittimi da parte degli inquirenti la storia politica del Paese avrebbe potuto avere un segno diverso.