La democrazia sudamericana alla prova

Le ultime due elezioni che hanno fatto notizia in Sud America, le presidenziali in Argentina dello scorso novembre e il rinnovo del Parlamento venezuelano di dicembre, entrambe vinte dalle opposizioni di centro-destra, sono state analizzate come l’inizio della fine del ciclo favorevole alle sinistre. Un ciclo che, con l’eccezione della Colombia, portò a un cambiamento totale e radicale delle storiche classi dirigenti insediando ai vertici degli Stati sudamericani uomini e donne appartenenti alle diverse correnti della variegata famiglia della sinistra latinoamericana. Questo è stato possibile perché con la fine della Guerra Fredda la democrazia, liberatasi dai vincoli di obbedienza ai dettami di Washington in chiave anticomunista, divenne lo strumento del cambiamento. La bistrattata e talvolta disprezzata “democrazia borghese” è stata quella che ha permesso una vera e propria rivoluzione democratica, uno stravolgimento degli schemi centenari di potere, aprendo le porte a una nuova classe dirigente che trent’anni prima sarebbe stata soltanto carne da macello per i militari. La principale fortuna di questi presidenti è stata quella di governare all’inizio di un ciclo favorevole per le materie prime alimentari e minerarie, sostenuto dalla domanda insaziabile della Cina, diventata in pochi anni il principale partner commerciale dei Paesi sudamericani. Alcune di queste esperienze di governo hanno lasciato profondi segni nella società, soprattutto sul fronte dei diritti civili e individuali. In diversi Paesi è stato introdotto il matrimonio tra persone dello stesso sesso, sono state liberalizzate le droghe leggere, tutelate le minoranze etniche, approvate leggi contro le violenze e le discriminazioni di genere, introdotti gli assegni universali per i figli e la disoccupazione retribuita, allargato il Welfare. La sinistra in questi anni è riuscita a vincere anche sul piano dell’egemonia culturale, dopo l’ubriacatura neoliberista degli anni ’90, insediando nuovamente valori quali la solidarietà, il rispetto dei diritti umani, il ruolo dello Stato come controllore dell’economia, i beni comuni. Ciò che, invece, è stato fallimentare attiene ai più antichi vizi della politica sudamericana: corruzione, nepotismo, assunzioni clientelari, manipolazione dell’informazione, uso politico dello sport, autoperpetuazione. Tutti i governi di sinistra o centrosinistra sudamericani sono stati colpiti da denunce che non hanno mai prodotto risultati sul piano concreto, ma soprattutto non sono mai state varate riforme sul piano della trasparenza nella gestione pubblica. Diversi Paesi hanno modificato le proprie Costituzioni e leggi elettorali per permettere la rielezione più e più volte del leader di turno. La democrazia, che è stata la chiave di volta pacifica per cambiamenti profondi in Sud America, è stata maltrattata dai suoi stessi beneficiari. Le promesse di rendere la partecipazione strutturata e vincolante disattese. Il giuramento di porre fine alle “ruberie” della classe politica dimenticato.

La crisi economica che ha colpito il mondo a partire dal 2008 è arrivata da un paio d’anni in Sud America, e con essa l’esaurimento rapido di alcune esperienze di sinistra che avevano saputo ridistribuire il reddito ai tempi delle vacche grasse ma che si sono dimostrati incapaci di governare in tempi di vacche magre, riproponendo il drammatico ciclo dell’indebitamento pubblico-inflazione nel quale sono finiti sia l’Argentina sia il Venezuela, non a caso i primi due Paesi dove le opposizioni sono tornate a vincere. Ora il grande malato, forse il prossimo nel quale avverrà un cambiamento, è il Brasile. La spinta data da Lula nei suoi due mandati, e che hanno portato il Paese a sedere al tavolo dei Grandi, oggi si è totalmente esaurita e Dilma Rousseff deve fare i conti con una crisi economica e di fiducia senza paragoni in un contesto di scoperchiamento dei meccanismi corruttivi che tengono in piedi da sempre il Brasile, anche per via di una pessima legge elettorale, e che non hanno risparmiato il suo Partito dei Lavoratori.

Le reazioni dei governi che hanno perso le recenti elezioni sono preoccupanti. Hanno fatto fatica a riconoscere i risultati e, anzi, in Venezuela si prevedono contestazioni. La democrazia, per alcuni settori della sinistra sudamericana, è tornata “borghese” perché hanno vinto le destre; non c’è stato alcun ragionamento sulle cause della disfatta. Per la democrazia in Sud America, così difficilmente riconquistata, si preannunciano ancora una volta tempi difficili. Se chi ha governato solo grazie alla fine della Guerra Fredda non la considera uno strumento di convivenza imprescindibile, le alternative rimangono quelle arcinote dell’autoritarismo: la “mano dura” dei militari o gli improbabili tentativi di fondare repubbliche socialiste. Oggi la sinistra sudamericana è chiamata a prendere atto della sua fase declinante e a riflettere seriamente sugli errori e sui correttivi. Ma la democrazia non si può toccare, in Sud America e non solo l’unica alternativa è il baratro.