Ormai era nell’aria, prima ancora che Greenpeace pubblicasse 240 pagine di documenti riservati sul negoziato in corso tra Stati Uniti ed Europa per creare la più grande area di libero scambio mondiale. La dichiarazione in cui François Hollande ha affermato che, allo stato attuale dell’arte, il suo Paese non firmerebbe il TTIP perché non tutela l’agricoltura e la cultura nazionale toglie le castagne dal fuoco a diversi altri capi di Stato europei che non hanno il coraggio di mettersi contro Washington. Prima tra tutti Angela Merkel, sempre meno convinta per via delle critiche ormai frequenti al Trattato esternate dal suo vice, il socialdemocratico Sigmar Gabriel.
Addirittura il più ottimista, il primo ministro italiano Renzi, ha posto alcuni paletti invalicabili per sottoscrivere l’accordo: il riconoscimento dei marchi di tutela italiani sull’agroalimentare e il divieto agli OGM. Due temi che negli USA non vengono nemmeno presi in considerazione. Altro argomento scottante, l’opposizione di Washington all’apertura del mercato interno degli appalti alle imprese europee. Ma la vera svolta di queste settimane sul TTIP, che si sarebbe dovuto chiudere nel 2016 ma che rischia di rimanere in sospeso a lungo, è che negli USA praticamente tutti i candidati alla Presidenza sono nettamente contrari, come Trump e Sanders, o tiepidamente favorevoli, nel caso di Hillary Clinton.
Una contrarietà crescente che rispecchia l’andamento dei sondaggi sulla popolarità dell’accordo rilevati dall’autorevole fondazione tedesca Bertelsmann: i favorevoli sono crollati dal 53% al 15% negli USA e dal 55% al 17% in Germania. Un clamoroso cambiamento nell’opinione pubblica dovuto al capillare lavoro di informazione e controinformazione dei cittadini promosso da migliaia di associazioni sia in Europa sia negli Stati Uniti. Che ha avuto successo nonostante sia stato oscurato dai media.
Alle cause del fallimento annunciato del TTIP si deve aggiungere lo scontro fra i titani dell’economia presenti nei due blocchi. Negli USA, per la prima volta si sta negoziando un accordo con un gruppo di Paesi economicamente, tecnologicamente e demograficamente alla pari, e in alcuni settori addirittura più forti. Per l’Europa, si tratta della prima volta in cui si mettono seriamente in discussione 40 anni di regolamentazione del mercato interno e la stessa logica della coesione comunitaria così faticosamente costruita.
Ma il nodo centrale della questione è legato al cambiamento della stagione politica mondiale. Di fronte alla crisi economica che non si è chiusa, ai Paesi Brics che arrancano, all’aumento della conflittualità globale, siamo all’inizio di un’era neo-protezionistica. Un neo-protezionismo che si legge chiaramente nello slogan America First di Donald Trump, ma anche nel Buy American di Barack Obama, e che in Europa si ripresenta puntualmente in Francia: il bastione della difesa della peculiarità culturale e agricola europea a suon di miliardi di sovvenzioni e di barriere doganali tenute alte.
I due blocchi storici dell’Occidente, che storicamente hanno fatto della retorica liberoscambista un’arma contro il protezionismo degli altri, dalla Cina al Brasile, oggi hanno reciprocamente paura di deregolamentare i propri mercati interni. Questo stallo permette di misurare la distanza tra il dire e il fare in politica economica: il “mercato senza rete” che gli Stati dell’Occidente auspicano per i Paesi che una volta erano del Terzo mondo, a casa loro può ancora aspettare.