di Alfredo Somoza
Direttore di Dialoghi.info
La definizione accademica di “cooperazione” può essere sintetizzata in “azione condivisa di più agenti per il perseguimento di uno scopo”. E fin qui siamo alla fredda descrizione del termine, derivato dal verbo latino cooperari. In realtà, non si tratta di un’azione qualsiasi, ma di un principio che ha rivoluzionato i rapporti umani e che, secondo l’antropologia, è tra le azioni che hanno dato vita alle prime comunità di esseri umani. Non è un’esclusiva: sono diverse le specie animali che cooperano per raggiungere obiettivi primari quali l’alimentazione o la difesa. Ma nessuno come l’uomo ha dato un significato economico e culturale a questo principio che è il contrario dall’agire da solo, dell’individualismo. Nella storia sono innumerevoli i momenti significativi in cui gli uomini hanno cooperato tra loro, mossi da diversi motivi e necessità, ma è nell’800 che questo principio è diventato anche azione politica: è accaduto con la nascita delle prime esperienze organizzate di cooperazione dal basso, tra contadini o operai, con l’obiettivo di costruire un futuro slegato dal classico rapporto tra capitale e lavoro incentrato sulla proprietà individuale. Le cooperative, i sindacati, le “mutue” di autogestione hanno fornito l’ossatura al socialismo nelle sue diverse declinazioni, a partire dal concetto di solidarietà e dal prendersi cura dei più deboli fino all’idea di giustizia sociale e di redistribuzione della ricchezza, e alla costruzione di quella grande intuizione europea che ha dato anima al capitalismo moderno: il welfare.
Il concetto di cooperazione è stato però travisato nel tempo, diventando in alcuni casi assistenzialismo oppure, peggio ancora, una cortina fumogena dietro la quale nascondere nuove forme di oppressione. Fino all’uso politico contraddittorio tipico dei regimi totalitari che, di fatto, hanno tolto ogni autonomia al mondo cooperativo, riducendolo a semplice ingranaggio del potere. La cooperazione è invece geneticamente portatrice di libertà e di autonomia: non solo dal mondo del capitale, ma anche dalla politica. O meglio, è stata sempre portatrice di idee rivoluzionarie che man mano si sono adeguate ai tempi, dalle prime esperienze ispirate al contesto e al pensiero dell’800 fino alle odierne istanze di allargamento della democrazia e della tutela dei lavoratori e dei piccoli produttori.
Anche a livello di relazioni internazionali, partendo dall’assunto che nei rapporti tra i Paesi poveri e le potenze economiche si potesse leggere la stessa contraddizione esistente nel mondo del lavoro, la cooperazione ha trovato una sua collocazione: cooperazione per raggiungere obiettivi in campo ambientale, per mantenere la pace, per favorire il dialogo. Ma anche cooperazione allo sviluppo: una declinazione particolare del cooperare, nata dopo la Seconda guerra mondiale e con la quale si sarebbe voluto colmare il divario tra Nord e Sud del pianeta. Anche in questo caso, non sempre le intenzioni e le dichiarazioni corrispondono ai risultati e ai fatti. Nel senso che spesso la cooperazione tra Stati è stata subordinata a mire geopolitiche, strategie commerciali o neocoloniali. Esiste però anche una forma di cooperazione allo sviluppo, non governativa, che continua a tenere vivi i principi di solidarietà senza tornaconti. Negli ultimi anni, in questo ambito si è potuto verificare il principio che cooperare implica un’idea di reciprocità, prevede azioni che si muovono in entrambe le direzioni: l’esperienza accumulata nel tempo dalle Ong operanti nel Sud del mondo si è infatti rivelata utile in Europa per affrontare questioni che spaziano dalla coesione sociale alla lotta alla pandemia.
Dunque qual è oggi la ragione, il senso di (ri)proporre un dibattito sulla cooperazione, come facciamo in questo numero di Dialoghi.info? Pensiamo sia importante perché nel nostro mondo si stanno di nuovo determinando le condizioni che portarono alla nascita del movimento cooperativo nell’800: crescita delle disuguaglianze, imbarbarimento del mondo del lavoro, aumento della tensione internazionale. Il cooperare può essere la risposta? Sicuramente è una delle risposte possibili. Soprattutto a livello globale, rinforzando il multilateralismo, che non è altro che una modalità cooperativa tra Stati finalizzata a risolvere problemi transnazionali. Ma anche a livello nazionale e locale, nelle singole società. Oggi i sociologi sottolineano la “solitudine” del lavoratore precario, la mancanza di legami tra persone che svolgono lo stesso lavoro e che subiscono le decisioni di datori di lavoro che spesso nemmeno conoscono e che, magari, comunicano con loro attraverso un’app. L’esempio della lotta dei riders a Torino e a Milano è solo un esempio del bisogno di ricomporre l’unità di chi condivide lo stesso trattamento lavorativo. L’odierna lotta dei fattorini che consegnano cibi e merci a domicilio ci riporta alla nascita del sindacato, all’epoca in cui i singoli lavoratori divennero un corpo unico e così riuscirono a fare valere i loro diritti. Oggi la dimensione di questi problemi è diventata globale, ma resta sempre il fatto che, per chi possiede il solo capitale del suo lavoro, l’unico modo di farsi valere è cooperare.